Dalla parte di Marco
Tre mesi e una settimana dopo, in una assolata mattina di novembre, ci sposammo. Conoscere Laura è tra le cinque cose migliori che mi siano capitate. La prima? Il mio lavoro. Assolutamente. Può sembrare cinico dirlo e forse anche offensivo, ma il lavoro va prima di tutto; è quello che mi dà da mangiare, che mi fa pagare le bollette del telefono, che mi permette di andare ogni anno in vacanza per l'intero agosto, e ogni volta in un luogo diverso di questo pazzo pazzo mondo. Ed è grazie a esso che io sono io, cioè, senza questo lavoro sarei senz'altro un'altra persona, una persona diversa, come ero diverso quando lavoravo nell'officina di mio padre. Sono passati vent'anni da allora ma a me sembrano passate una o due reincarnazioni. Potreste benissimo dire: “Sei maturato, per questo motivo ti senti diverso”. Non è il fatto della maturazione che mi ha cambiato, ma il mio lavoro. Scegliere questo lavoro è stata la prima decisione importante che ho preso in vita mia e ne vado fiero.
Lo decisi il pomeriggio in cui vidi mio padre accasciato per terra con una mano stretta sul petto e l'altra che penzolava come un ramo spezzato. Lo vidi dischiudere quel pugno che i miei occhi avevano visto tante volte da vicino e lasciare la chiave del quattordici cadere per terra, rimbalzare ed emettere quel tintinnio che a lui dava fastidio. “Non far più cadere quell'attrezzo, imbecille” urlava sempre quando una di quelle chiavi mi scivolava tra le mani “Oppure ti ammazzo di botte”. E poi c'erano quegli occhi vitrei che al buio dell'officina avevano lo stesso colore della tuta. Mi fissavano con insistenza per chiedere aiuto. Io, a pochi passi, rimasi immobile. Vedevo mio padre accasciarsi, grande e grosso com'era, raggomitolarsi su sé stesso come un enorme grumo di carne umana. Sempre più piccolo e impotente.
Pensai subito che era un infarto. Cos'altro poteva essere? Un uomo che si tiene il petto come se il tutto il male che aveva dentro non trovava più spazio, e premeva per uscire e inondare il resto del mondo. Sì, è un infarto pensai, cos'altro poteva essere?
Corsi verso il telefono, nell'angolo dell'officina dove mio padre aveva allestito uno studiolo, formato da pareti di plexiglas, che utilizzava per tenere la contabilità. Entrai e mi diressi verso la scrivania. Trovai l'agenda degli appuntamenti e delle scadenze , un block notes dove aveva segnato alcuni numeri di telefono e sui cui aveva disegnato delle isole con palme e delfini e un registro delle fatture nuovo. Sommerso da fogli di carta e quaderni trovai il telefono. Era un vecchio telefono a disco, grigio perla. Rimasi a guardare il disco dei numeri. Mi voltai verso mio padre allungando le mani a palmo aperto e attraverso la parete trasparente dissi:
– Non posso... sono... sporche...
Non rispose. Ansimava e stringeva con forza la tuta da lavoro all'altezza del petto. Gli occhi mi guardavano accigliati come se volessero punirmi ancora una volta.
– Non posso – ripetei.
Decisi di fare di testa mia. La prima cosa che passa per la testa di un bambino di otto anni era di chiedere aiuto. Quindi uscii e corsi verso l'abitazione di mia zia, la zia Amanda, prima delle tre sorelle di mio padre. E' morta anche lei qualche anno fa, ma di un'altra malattia. Attraversai il vigneto, la raggiunsi nel pollaio dove stava per sgozzare una vecchia gallina e le dissi cosa era successo. Lasciò andare la gallina e il coltello e si allungò verso di me. Era grossa come la guardina del forte che avevo costruito per i miei soldatini di plastica. Lo sguardo accigliato e mascolino era identico a quello di mio padre, la muscolatura e i peli delle braccia pure.
– Non hai chiamato il pronto soccorso? – chiese lei. Balbettai che non potevo farlo e mostrai le mani segnate dalle vergate sferzate con la fibbia della cintura. Lei non capì subito. Ci misi un paio di minuti per dire che se avessi toccato il telefono con le mani sporche mio padre non avrebbe esitato a sfilarsi la cintura e darmele. Mia zia scosse la testa poi dettò l'indirizzo dell'officina a un operatore del pronto soccorso.
Quando tornammo in officina mio padre non mi guardava più. Non guardava più nessuno. Era a terra, a pancia in giù, col naso arrossito dai capillari ingrossati, schiacciato per terra come un pomodoro secco.
Quel giorno salvai la vita a una gallina e sacrificai quella di mio padre. Credo che nel cambio il mondo ci abbia guadagnato, tutto sommato.
La sera stessa, dopo la veglia funebre, sentii mia madre dire che da soli non saremmo mai stati in grado di portare avanti quell'officina. Aveva ragione. Dopo la morte di mio padre la metà dei nostri clienti non si fece più vedere. Era lui il genio dei motori, non io né tanto meno mia madre che si preoccupava soltanto di lavare le tute da lavoro a me, mio padre e ai due meccanici che aveva assunto. Aspettai quei dieci anni che mi separavano dalla maggiore età per venderla. Con quei soldi, quattro anni dopo, ho aperto l'agenzia di servizi informatici in cui lavoro ancora adesso. Il capo ero io, finalmente. Non prendevo ordini da nessuno. Li davo, e questo per me era un traguardo.
Decisi di dire a mia madre che mi sarei sposato. Era venerdì, era il giorno sbagliato lo sapevo, ma era l'ultimo giorno disponibile. Laura stava lavorando e piuttosto che rovinarmi anche la serata e aspettare che ci fosse anche lei, decisi di andarci da solo dopo pranzo. Mia madre stava seduta di fronte al televisore a un palmo dallo schermo. Rattrappita sulla sedia che aveva impagliato il mese precedente. Anche da lì, ne ero sicuro, non distingueva ciò che stava vedendo e non riusciva a distinguere la Carrà con la De Filippi.
– Io e Laura... te la ricordi Laura vero? Beh, io e Laura ci sposiamo domani. Dovresti cercare un vestito buono per la cerimonia, qualcosa di carino. Se vuoi ti accompagno a comprare qualcosa, sennò fa niente, mettiti quello che metti la domenica quando vai a messa.
– La Carrà s’è fatta brutta, la vedi quanto ride male? Sembra poro zi’ Mario colla parucca bionda.
Fu l’ultima cosa che sentii dire dalla vecchia. La sera stessa io e Laura andammo a controllare che avesse capito cosa doveva fare, che poi non era altro che stirare un bell'abito da cerimonia e preparare le buste di plastica per metterci gli avanzi per i sette cani che governava. La trovammo sdraiata sul letto ancora vestita. Pignola com'è, pensai, non si addormenterebbe mai vestita e soprattutto non avrebbe mai dimenticato di infilare la dentiera nel bicchiere. La scossi per svegliarla: “Mamma! Mamma!”, sussurrai. Le presi il braccio, esile come il manico di una racchetta da tennis e lo lasciai ricadere sul letto.
– Il matrimonio è rimandato – dissi rivolgendomi serio verso Laura. Lei invece, che era più sveglia di me, stava già lacrimando. Lacrimava per una donna che non aveva mai visto in vita sua.
Riccardo Murzio era il sindaco del mio vecchio paese e conosceva la sora Checca sin da piccolo. Rimandò senza battere ciglio il matrimonio. Durante il funerale non fece altro che parlarmi di quanto fosse stata generosa con i bambini del quartiere e di come l’avesse spronato ad aspirare a qualcosa di più che un lavoro da contadino.
– Io invece dovevo soltanto dare le chiavi giuste e i cacciaviti a mio padre – gli dissi – e se non lo facevo mio padre mi menava, e mia madre ci metteva il carico.
– Non ti preoccupare per i manifesti – disse lui – li metto a carico del comune – Mi cinse col suo lungo braccio intorno al collo e con la mano strinse la spalla. Era di una testa più alto di me. Aveva il fisico asciutto. Non faceva sport, ma non esagerava col mangiare. Produceva a ritmo serrato la stessa risata posticcia di quando andavamo alle superiori e che gli procurava molte donne e anche molti schiaffi.
– Come è finita quella storia della ragazzina? – gli dissi all'improvviso. Il suo braccio scivolò via verso la schiena dove assestò due pacche decise.
– Bene, bene – disse soltanto. Lo vidi andare via senza aggiungere altro. Quando stava per salire in auto si girò facendo tintinnare i bracciali d'oro, indossò di nuovo il sorriso posticcio e disse:
– Ci vediamo direttamente in comune.
Ci sposammo la settimana seguente alla presenza dei soli testimoni. Sara e Marta, rispettivamente sorella e amica del cuore di Laura, se ne stavano composte alla destra della sposa. Sara somigliava molto a Laura, aveva gli occhi castani e verdi di una loro nonna che vidi ritratta in un loculo del cimitero quando, dopo la sepoltura della sora Checca, Laura decise di presentarmi almeno i parenti morti dato che evitavo con pervicacia di conoscere quelli vivi. Aveva la stessa tonalità di rosa sul volto e le stesse piccole fragole rosse all'altezza degli zigomi, come se fosse perennemente imbarazzata di avere un fascino che forse pensava di non meritare. Le labbra formavano il sorriso spento di chi non aveva più molto da chiedere dalla vita. Le due taglie in più di reggiseno, sorrette da un push up color carne che traspariva dalla camicia bianca, per un attimo mi fecero pensare di aver sposato la sorella sbagliata. Marta invece era grassa e sembrava non lavarsi i capelli da un mese. Si vedeva che aveva scelto con cura quel vestito rosso corallo che le lasciava scoperti soltanto due polpacci a forma di prosciutto. Mostrava la sua quinta misura con orgoglio. Mi accorsi che se qualcuno diceva qualcosa di storto cambiava umore a velocità fulminea, e i suoi occhi diventavano delle fessure grandi quanto il pertugio di un salvadanaio. Poi si impettiva, come se volesse minacciare chi aveva di fronte a sé con quelle enormi protuberanze mammarie.
Mattia e Marika erano i miei testimoni. Mattia lavorava per me da dieci anni e lo consideravo un fratello minore. Marika, sua moglie, la vedevo poco e quando potevo la evitavo per non subire i miei stessi sensi di colpa. Sapevo che Mattia la tradiva da anni e mai per più di un mese con la stessa donna. Quando la vidi le sorrisi ingenuamente mentre Riccardo, il sindaco, pronunciava in gran fretta la formula. Io e Laura rispondemmo “sì” a turno . Firmammo il documento del matrimonio e contemporaneamente il cambio di residenza. Finalmente potevano iniziare la nostra vita insieme.
Ci trasferimmo la sera stessa e congedati i testimoni festeggiammo esplorando la villa in ogni angolo. Non potete immaginare in quanti posti si possa fare sesso, se volete. Mica intendo scrivania, lavatrice o tavolino della cucina; pensate a uno sgabuzzino con scope e stracci da spolvero. Pensate a un aspirapolvere elettrico molto potente compreso di accessori di ogni forma studiati per arrivare in ogni angolo del vostro salotto. Pensate a cosa potreste fare nel buio con tutta quella roba appesa al muro, poggiata dietro a un poster di J.F.K, l'uomo più affascinante del mondo, almeno così diceva Laura. Pensate a come possa essere satura di armonici la voce di una donna in uno spazio così ristretto, costretta a urlare e gemere e allo stesso tempo disperarsi di non avere più spazio ed essere priva inoltre di quel poco di luce che le basterebbe per vedere il mio corpo muoversi convulsamente per lei.
Mezz'ora dopo si accasciò per terra, esausta. Nel buio la sentii sorridere, poi disse con un vago tono malinconico:
– Non vedo l’ora di avere un figlio.
– Ne avremo quanti ne vuoi – risposi io, poco più su, con una mano appoggiata sulla parete dello sgabuzzino e l'altra sulla fronte.
– Domani compro i test – disse lei – E' da quando mi hai chiesto di sposarti che passo davanti alla farmacia e sogno il momento in cui entro per chiedere dei test di gravidanza.
– Lo so.
– So già cosa dirò: salve, vorrei dei test di gravidanza, che siano buoni e affidabili. Non mi importa del prezzo. E lei, la farmacista, La dottoressa Alessandra Satta di quindici anni più giovane, mi da un'occhiata di sfuggita e si accorge che la sua vita non così è perfetta come pensava che fosse. Allora il cartellino col nome appeso al petto traballa e lo sistema con una mano mentre con l'altra, perfettamente smaltata come il corallo, gira la scatola mostrando al sensore il codice a barre; poi la fa scivolare davanti alla cassa e quella emette un bip lieve lieve e il prezzo viene stampato sullo scontrino. E mentre fa tutto questo pensa che il suo uomo, a pensarci bene, non sarebbe mai stato in grado di tirar su un figlio. Eppure lo vuole anche lei un figlio, un maschietto di nome Simone. Alto e magro, come suo nonno, di quelli che quando sono adolescenti ti incasinano la vita ma poi... poi... – e qui sospirò rumorosamente – poi ti danno la soddisfazione di vederli andare in giro per il mondo come se niente gli fosse estraneo o precluso. Come se gli bastasse puntare l'indice su un qualsiasi punto della cartina geografica per poter dire di esserci stato.
– Allora hai già deciso il nome – dissi. Mi massaggiai i fianchi, esausto, e mi inginocchiai. La vidi rannicchiata come un feto in un utero post-industriale, aggrappata a un manico di scopa elettrica, col torace scoperto e le spalline della sottoveste rivolte verso il basso. Aveva la testa poggiata sulla parete e le mani a coprirsi i seni, come se non li avessi mai visti.
– Facciamo qualcosa domani? Oltre a scopare, dico. Non ho voglia di rimanere sola a casa.
– Devo lavorare – dissi io – Ci sono un paio di scadenze a breve termine e un altro paio che devo portare avanti. Inoltre devo parlare con il commercialista per le questioni fiscali.
– Vai a Roma, quindi.
– Penso di potermela cavare restando qui, almeno per domani.
5 commenti:
Narrazione con punto di vista multiplo...
Mi piace il modo in cui nei tuoi racconti gli eventi si svolgano sempre in modo surreale, quantunque realistico.
ho adottato questo stile e non so neanch'io perché
Ho editato il post: il font era illegibile. :-/
Spero che non ci siano altri errori.
A me succede quando faccio copia-incolla direttamente da Word. C'è qualcosa in Word che non piace a blogger.com ...
La tecnica migliore è fare copia-incolla da Word al "blocco notes" di Office, e poi dal "blocco notes" al post su blogger.com
In genere così funziona bene.
infatti di solito faccio così :-/
Posta un commento