giovedì 25 dicembre 2008

Della fenice e del nome di questo blog

Non credo di aver mai descritto una scena di buio totale come l'esercizio del libro Lezioni di scrittura della Gotham Writers Workshop richiedeva. Credo però che la scena che incollerò di seguito ci vada vicino.
Tratta dal diciannovesimo capitolo del mio libro inedito per ragazzi dal titolo (provvisorio) "La fenice che danzava nei sogni", questa scena si svolge all'interno del maniero di un importante alchimista. I sei protagonisti vi entrano senza volerlo.
Forse tornerò a parlare di questo romanzo perché è stato un importante punto di svolta nel mio modo di scrivere.
Se la vostra domanda è: "Hai provato a pubblicarlo?" la risposta è "Sì ,ovvio, mica sto sei mesi a scrivere un romanzo di 110.000 parole e altri sei mesi a revisionarlo e ridurlo a 85.000 per la gloria!". Credo di averlo mandato a quattro o cinque case editrici. Dopo sei mesi ho avuto la sola risposta negativa dell' Età dell'aquario che mi ha fatto gentilmente sapere che non fa per loro. Magari me lo facessero sapere anche le altre. Mica mi offendo!
In ogni modo, dopo sei mesi, non ho avuto altre risposte quindi deduco che le case editrici:
1- Non hanno ricevuto il pacco.
2- Lo hanno ricevuto e non l'hanno letto.
3- L'hanno ricevuto, letto e scartato.
4- L'hanno utilizzato come esempio dello spreco di carta e del disboscamento indisciplinato della foresta Amazzonica.

Nella lettera di presentazione lo descrivo come un romanzo per ragazzi di genere fantasy; un fantasy particolare in cui non ho mai utilizzato il termine magia, ma alchimia; così come non viene mai menzionata nessuna pozione magica, ma soltanto l'Opera Alchemica.
Quindi se un giorno sentirete parlare di Massimiliano, Gabriele, Giordano, Azzurra, Altea e Asia la colpa sarà mia. Nel frattempo leggete questo piccolo estratto.

...
Un secondo dopo il tappeto volò a tutta velocità verso la porta inducendo i suoi passeggeri a urlare per lo spavento. Quando sembrava che dovesse schiantarsi contro di essa, si fece buio. Il posto in cui erano atterrati non era Roma, decisamente, sembrava piuttosto un lungo corridoio sotterraneo. La luce di alcune fiaccole lasciava intravedere poco lontano due armature poste ai lati di una porta. All’interno varie ombre umane facevano silenziosamente la ronda. Pesanti gocce di condensa cadevano da tutte le parti e nel buio i ragazzi tentarono invano di ripararsi la testa. Soltanto allora si accorsero di non essere più sopra il tappeto volante. Max, che durante il viaggio sentì come se qualcosa lo stesse strangolando, capì di non aver più il ciondolo dello scarabeo appeso al collo.

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