mercoledì 23 giugno 2010

L'ultima stagione, parte 3 di 5

Convergenza
Quella in cui si svegliò Marco la mattina seguente non era proprio la casa dei suoi sogni, ma era una casa. Se apriva la finestra della camera da letto vedeva la collina dove era cresciuto e in cima a essa l'abitazione che tante volte era stata testimone delle sue bravate. Le mura adesso erano gialle. Quando le vide per la prima volta dopo essersi trasferito, aveva dieci anni allora, disse a sua madre: “Quando i cinesi vomitano la fanno di quel colore”. Le tegole, la cui tonalità di marrone rendeva meno austero il maggese appena arato alle sue spalle, aveva un impersonale aspetto da casa nuova, mai vissuta, asettica come un arredamento componibile dell'Ikea, dove non è facile distinguere il frigo-bar dal cesso.
Era a pochi metri, forse cinquanta, e non era più sua. Non si sarebbe più arrampicato sul tetto del forno, non avrebbe nascosto i giocattoli dentro l'armadio degli attrezzi del padre. Comprarla non era stato possibile. Lui era l'ignavo e la casa era il vessillo inarrivabile.
– Com'è il tuo appartamento? L'EUR è una zona tranquilla, o no? – gli chiese Laura quella sera al pub. Marco strinse le labbra e le bagnò assaporando le ultime gocce di Martini rimaste a ricordo del sapore, come se volessero indurlo a prenderne un altro. Infatti ne ordinò uno doppio con ghiaccio.
– Ha quattro mura, un tetto, qualche inutile parete interna. La cosa che mi piace di più di quell'appartamento è la foto che ho appeso all'ingresso. Avevo sei anni lì, lo sguardo attento alle novità. Vicino a me c'era Alf, il cane che avevo trovato dentro uno scatolone fuori dalla scuola.
Non era riuscito a comprare la sua vecchia casa dai coniugi Orlando (quella in cui era cresciuto lui), ma era soddisfatto lo stesso. Perlomeno poteva vederla ogni mattina: gli bastava aprire la finestra ed era lì ad aspettarlo con quel giallo sempre più sbiadito dal tempo.
Sì vestì e scese al piano terra dove Laura aveva preparato un'abbondante colazione. Sul tavolo trovò una caraffa di latte caldo, una caffettiera per due colma fino al becco, metà per il caffellatte l'altra da bere durante il lavoro, un vassoio con confetture e fette biscottate già spalmate di burro.
Un bigliettino lasciato vicino alla tazza del latte recitava: “Scusa se non te l'ho detto, sono uscita per fare un giro in paese. Voglio cercare un lavoro”.
Rimase sorpreso per il tempo che gli fu necessario per terminare il caffellatte. Accartocciò il foglio con una mano e lo gettò in un angolo del tavolo. Non era vestito, né pettinato. Si aggirava in mutande per casa stropicciandosi gli occhi e tentando di appiattire i capelli.
– Un lavoro – ripeté tra sé – Vado a cercare un lavoro.
Prese una valigia dall'armadio e l'aprì. Ne venne fuori un computer portatile alto due dita dall'aspetto fragile. Lo aprì e lo accese. Dopo qualche bip di attesa si ricordò che per leggere le email di lavoro che si aspettava aveva bisogno di una buona connessione.
In quell’angolo di campagna la tecnologia sembrava qualcosa di lontano e incongruo; avere una connessione ADSL veloce non era l’aspirazione di nessuno da quelle parti.
Cliccò un paio di volte al centro del portatile, strisciò l'indice verso destra, poi verso sinistra. Un colpo breve con il polpastrello.
Imprecò e decise di chiamare la compagnia telefonica.

Dalla parte di Marco
Laura tornò mezz'ora dopo carica di buste della spesa.
– Ti ho fatto un regalo.
Ero seduto sul divano e mi guardavo intorno senza sapere cosa fare. Laura si avvicinò canticchiando il motivo di Nove settimane e mezzo e senza dire altro alzò le spalline del vestito lasciandole scivolare sugli avambracci. Poi ancora più giù e il corpo si scopriva lentamente sotto il mio sguardo; rimasi a fissarla mentre si spogliava, foglia dopo foglia,come una cipolla da sacrificare per il soffritto. Era rimasta con un bustino rosso e nero che sosteneva con orgoglio il seno e un tanga che si perdeva tra le natiche incollate dall'umidità. Finito lo striptease ero ancora lì a guardarmi intorno senza sapere cosa fare. Infine afferrai la cornetta in mano e composi un numero di tre cifre.
– Lascia stare il lavoro per adesso – disse Laura seccata. – Non puoi rimandare?
– Devono ancora attivarmi quella maledetta ADSL! – urlai io brandendo il cordless. Non mi resi conti di aver alzato la voce. Laura arretrò e corrucciò lo sguardo come una bambina indispettita. Non mi aveva mai visto così arrabbiato. Forse non mi aveva mai visto arrabbiato e basta.
– Vado a letto, ci vediamo lì – disse infine.
– Aspettami sveglia – risposi una volta tornato calmo.
La raggiunsi qualche minuto dopo. Laura era a letto e teneva a fatica gli occhi aperti. Vedendomi entrare rantolò qualcosa come “Era ora, vieni qui”. Aveva il lenzuolo tirato giù a scoprirle le cosce e un sedere che col tempo stava levitando come una pagnotta di pane. Quando qualche minuto dopo ci fu l'orgasmo lei non era ancora del tutto sveglia. Sbuffò indispettita, ma alla fine decise di sorridere.
– Non ti preoccupare – disse.
Aprii il cassetto e vi cercai delle liquirizie. Non so perché, ma dopo aver fatto sesso ho sempre la bocca un po' amara. Potrebbe essere un problema di fegato, ma non capisco cosa c'entri col sesso. Mi voltai verso di lei e la vidi alla luce dell' abat-jour. Notai dei nuovi solchi attorno agli occhi; le rughe le attraversavano la fronte come quelle onde sinusoidali che studiavo a scuola. Le mani erano delicatamente chiuse all'altezza del seno, bianche e lisce, dita affusolate come rami di salice.
– Fa niente, magari è la volta buona – disse Laura voltandosi dall'altra parte. Si addormentò pensando ai test di gravidanza che aveva impilato nell'armadietto del bagno.
Laura è una donna che ha trascorso la vita a sognare e crede ancora che esista il principe azzurro, pensai. Masticai la liquirizia rumorosamente come se inconsciamente volessi cancellare quei pensieri con il rumore che produceva. Essere il principe azzurro di qualcuno è una grossa responsabilità e non ero pronto per assumerla. Ero improvvisamente tornato ai miei cinque anni, quando succhiavo il ghiacciolo con tutta la forza che potevo per assaggiare fino in fondo il sapore di limone o coca cola.
Tre giorni dopo il telefono squillò e risposi prontamente. Fumavo la prima sigaretta dopo dieci anni e non ero più abituato ad averne una in bocca. Ciccai dentro la barchetta di carta che avevo costruito in attesa che la voce preregistrata terminasse il messaggio. La cornetta urtò contro la sigaretta e si spense; il mozzicone incandescente cadde sul mio piede nudo. Imprecai strofinando il collo del piede sul polpaccio.
Laura entrò in sala arrabbiata, mani ai fianchi come una matrona di altri tempi.
– Adesso ci mettiamo anche a bestemmiare? – mi urlò contro.
– Scusami, e che i clienti sono un po' arrabbiati – risposi io. – Oggi posso finalmente lavorare : dovrebbero aver attivato l'ADSL a quanto dicono. Proverò più tardi.
Mi concessi una pausa e riempii un bicchiere di Martini bianco dove annegai due cubetti di ghiaccio. Mi stesi sulla poltrona. Laura si era messa ad annaffiare i fiori sul balcone. Era in tuta. Trovavo particolarmente sexy la mia donna in tuta. Finito il Martini bianco decisi di dedicarmi a lei.
– I vicini, potrebbero vederci – disse. Aveva una brocca in mano, semivuota, e i pantaloni della tuta a metà coscia.
– E chi se ne frega – risposi. – Lo vuoi o no un figlio?

La sdraia matrimoniale era una delle sue strambe idee. La piazzammo sul balcone, accanto al tavolo di plastica dove mi fermavo spesso a bere e vedere la mia vecchia casa dipinta con un gialloche mi ricordava il catarro di un vecchio.
Ci sdraiammo per riprendere fiato. Stava durando parecchio stavolta. Laura era una donna piuttosto inibita. Aveva soltanto bisogno di lasciarsi andare. Quando le sussurrai: “di' la verità, speri che ci vedano, vero? “, si sedette sopra di me prendendomi alla sprovvista. Non ebbi il tempo di dire nulla. Gemette rumorosamente e si lasciò andare in un orgasmo liberatorio.
Il caldo ci aveva procurato una patina di appiccicume addosso. Avevamo entrambi bisogno di una doccia ed entrambi aspettavamo che la pistola tornasse carica per farla insieme. Presi un'altra Camel e la accesi. Laura tossì e storse la bocca infastidita non tanto dal fumo, ma dal mio nuovo vizio.
– Hai deciso di morire così?
– Figurati – dissi io. – Mio nonno ha fumato un pacchetto di sigarette fino al giorno della sua morte, a novantadue anni.
– Vallo a dire alla signora Orlando.
– Il fumo non le arriva da qui – risposi io tornando a osservare il giallo–vomito della casa che una volta era mia.
– Suo marito ha il cancro ai polmoni – aggiunse con rassegnazione. – Dice che fumava molto. Ha smesso dopo che i medici glielo hanno diagnosticato.
Rimasi con la sigaretta a mezz'aria e fissavo il fumo che saliva dritto come lo spago di un palloncino.
– Capita – dissi. Spensi la sigaretta con violenza sul posacenere e aggiunsi:
– Quindi è malato gravemente.
– Hai sentito cosa ho detto? Pochi mesi.
– Non hanno figli, vero?
– Non ne hanno.
– Lei sta bene?
– E' provata, sai, suo marito ha pochi mesi...
– No, dico, lei sta bene fisicamente?
– Credo di sì. Che c'entra?
– Nulla – risposi. – Mi chiedevo se dopo la morte di suo marito continuerà a vivere lì.
– Tornerà a vivere a Roma – rispose Laura. – Non ha la patente e non potrebbe neanche andare a fare la spesa.
Lo disse con tono asciutto. Aveva capito dove volevo arrivare.
Mi pentii di aver spento la sigaretta così ne accesi un'altra. La fumai fino in fondo, soddisfatto.
– Credo che dovremmo stringere amicizia con gli Orlando.

I miei clienti intanto chiedevano notizie sull’andamento dei progetti. Dovetti inventare le solite scuse che si dicono sempre in questi casi: nuovi aggiornamenti tecnologici che avrebbero reso il software più sicuro e stabile. Aggiunta di nuove funzioni che aiutano l'interattività. Funzioni di controllo e sicurezza molto importanti. Funzioni ovviamente nascoste a tutti e che poi, in realtà, neanche esistevano.
Quella notte mi svegliai alle tre e le cicale frignavano come lattanti in cerca della mammella.
– Cazzo! – esclamai. Mi ritrovai a sedere sul letto. Mi alzai così in fretta che la testa prese a girare vorticosamente. Due metri in là vidi la bottiglia del Martini vuota e il bicchiere rovesciato. All'interno dovevo aver messo le bucce delle noccioline evidentemente perché dove il bicchiere era rovesciato c'era un cumulo di bucce. Mi ero ubriacato con il Martini, con tutta probabilità. Ce ne vuole per ubriacarsi con il Martini. Eppure la testa girava e sudavo freddo nonostante fosse agosto. Dovetti sdraiarmi di nuovo. Nel frattempo Laura si era svegliata e si era avvicinata a me. Aveva acceso la luce e contava le perle di sudore sulla mia fronte.
– Che è successo?
– Quel sogno, ancora.
– Dovresti rilassarti – sospirò lei. – Datti una tregua.
Tentai di rimettermi seduto. Ancora conati di vomito e sudore freddo. Tornai ad affondare la testa nel cuscino.
– Roba da film cyberpunk. Ero di fronte al computer e lavoravo. Quello a un certo punto si pianta e io stramazzo al suolo. Come se la mia vita dipendesse da lui.
Laura rimase ad ascoltarmi seria. Prendeva sul serio ogni cosa che le dicevo. Se le confessassi di essere stato rapito dagli alieni, mi crederebbe senza esitare.
– Un sogno ricorrente – disse a un certo punto.
– Era differente dagli altri. La volta scorsa si era soltanto disconnesso. Era caduta la linea, non si era piantato. Non appena era comparso l'avviso sul monitor ho perso tutta la volontà di vivere. Allora ho cominciato a piangere e urlare. Ero disperato. Penso che se non mi fossi svegliato mi sarei suicidato, nel sogno dico.
Mi asciugò la fronte accarezzandola con le dita. Asciugò le perle di sudore sulla mia fronte una ad una con un bacio.
– Non ti preoccupare. Sei soltanto stressato.
Mi alzai in piedi. Trattenni il respiro per vedere se ancora mi veniva da vomitare. Mi infilai le ciabatte. Ci ripensai e le sfilai lanciandole addosso al muro. Arrivai fino alla porta e dissi:
– Devo controllare se funziona tutto bene.
Erano le tre di notte e i merli si rincorrevano nel buio. Facevano un baccano della madonna. Mi tennero compagnia fino alle sette quando il turno di notte diede il cambio a quello diurno e i passeri si affollarono tra i rami dei due ciliegi che si affacciavano dalla finestra della sala.
Io ero sempre al mio posto, di fronte allo schermo del mio computer e fissavo la nuvolette che nell'angolo destro indicava la velocità di connessione. 33 kbps.
– Cristo! Neanche nel terzo mondo sono così lenti.

– Sei tornato a dormire o sei rimasto sveglio tutta la notte? – disse Laura entrando.
Passai una mano sulla faccia e mi stropicciai gli occhi. Alzandomi mi stiracchiai sonoramente: scricchiolavo come un ramo carico di neve.
– Secondo te perché dicono che fanno assistenza ventiquattro ore al giorno se poi non è vero?
– Sei stato sveglio tutta la notte – disse Laura sospirando. Aveva una voce fine e infantile: non era ancora del tutto sveglia. Per tutto conto le risposi con uno sguardo incazzato e mi allontanai verso la cucina. Versai un bicchiere di latte e presi un cornetto da una confezione trasparente e sporca della glassa di zucchero dei cornetti stessi. Assaggiai un boccone che rimase impastato nella bocca. Lo mandai giù a fatica insieme a un sorso di latte.
– Fanno schifo – dissi. – Fa tutto schifo, pure il latte. Non è fresco!
– Non posso andare a fare la spesa tutti i giorni – rispose Laura.
– Allora compra qualcos'altro.
– Come vuoi – rispose lei. Forse mi stava solo assecondando. Uscì dalla sala e andò in bagno a farsi una doccia. Sentivo l'acqua tiepida scorrere sulla sua pelle. Mi feci venire in mente l'idea di raggiungerla e scoparla sotto la doccia; poi pensai che ero troppo stanco e anche troppo incazzato.
– Dopo esco – disse dalla doccia. – Se devo prendere qualcosa dimmelo subito.
– Non ti preoccupare – risposi. Nel frattempo cliccavo senza rendermene conto sulla nuvoletta come se potessi cambiare quel numero a suon di click.
– Casomai ti raggiungo dopo in paese. Non posso lavorare neanche oggi.
Lo scroscio dell'acqua terminò. Dieci minuti dopo Laura tornò da me. Sembrava vestita a festa con quell'abito corto a fiorellini. Il push up le evidenziava il seno e il trucco riprendeva il colore magenta dei merletti della gonna.
– Vado a fare un colloquio, non puoi venire – sorrise.
– Pensavo che andassi a cercarti un nuovo marito – dissi io. Il sorriso si arrestò subitaneamente. Stava tentando di rimanere calma.
– Senti, sono nervosa anche io, non ti ci mettere pure tu.
– E' che... l'idea che lavori mi da' fastidio – dissi.
Laura spalancò gli occhi, mi guardava stupefatta, come se mi vedesse per la prima volta dopo tanto tempo.
– Non ti facevo così maschilista.
Era di fronte a me che cercava una valida giustificazione per ciò che avevo appena detto senza rendermene conto. Presi tempo respirando rumorosamente.
– E' che ti voglio tutta per me – dissi alla fine. La fissai e notai ancora una volta che mi piaceva molto: era sensuale. Lei se ne accorse e si avvicinò, mi prese le mani e le pose sui fianchi. Io rimasi a fissare l'ombelico. Era piccolo e arrotolato su sé stesso come una ciliegia secca. Gli diedi un bacio.
– Ti va? – chiese Laura.
– Cosa? – chiesi io di rimando.
– Ti va… be' dai…
– No, scusa, giornataccia, non posso lavorare e sono un po’... un po’ nervoso, ecco.
– Rilassati, è il mio periodo fertile e…
– Cristo Laura, non pensi ad altro! Non vedi che non posso lavorare?
Mi alzai di scatto dalla sedia girevole. A lato del computer c'era una bottiglia di Vodka alla mela ed era già a metà. Finii quello che era rimasto nel bicchiere; lo riempii e lo svuotai di nuovo. Rimasi a fissare il bicchiere vuoto e i due cubetti di ghiaccio al suo interno ancora integri che rotolavano come dadi. Di sottecchi vidi la sua faccia cambiare espressione come se fosse renderizzata da un algoritmo di morphing. Da Laura Biagio a Linda Blair in appena cinque secondi netti. E aveva pure le sue stesse iniziali.
– Mi stai trascurando – borbottò Linda Blair parlando in latino al contrario.
– Sono stanco. Trovati qualcosa da fare!
– Ci ho già pensato, te l'ho detto. Ho un colloquio di lavoro. Riccardo mi aspetta alle nove nel suo ufficio.
– Riccardo? – Urlai e senza rendermene conto spensi tutti i grilli accesi da Alberto Lupo trent’anni prima. Riposi la vodka e afferrai la bottiglia di Martini per versarmene due o tre dita.
– Il sindaco, l’ho conosciuto al funerale di tua madre e gli ho chiesto un lavoro.
– Hai chiesto un lavoro a quel porco che ha costretto una ragazzina di quindici anni ad abortire per continuare la carriera politica? Fai pure e porta i fiori a mia madre “permericcardoècomeunsecondofiglio” se passi al cimitero.
Fece un cenno di disprezzo con la testa e se ne andò senza dire nulla. Al ritorno era sorridente, come se non fosse successo niente. Aveva ottenuto il lavoro ed era contenta. Lei.

2 commenti:

Ariano Geta ha detto...

L'ironia è sempre azzeccata, ogni volta al momento giusto.
P.S.: sei stato ispirato da qualche persona/vicenda o è tutta fantasia?

Mirco ha detto...

tutto inventato!

Mettendo online questo racconto non ho più controllato i refusi, ne ho visti e li sistemerò.